venerdì 2 maggio 2014

SONO PEGGIORI GLI AVVOCATI O I MEDICI ?


                                                                    Gli avvocati sono sciacalli o i medici sono ignoranti?
   Con il proliferare delle cause per responsabilità medica questo interrogativo è divenuto molto frequente. La classe forense non sta attraversando un facile periodo e, pertanto, determinati casi di malasanità vengono considerati dal punto di vista professionale come una vera e propria manna dal cielo; si arriva a persuadere il cliente, destinatario di prestazioni sanitarie non brillanti, ad adire le vie legali con ogni mezzo, compresa la pressione psicologica.
   Tuttavia, occorre sottolineare che quello fin qui esposto rappresenta soltanto un aspetto della problematica. Si tratta di un aspetto importante, ma limitarsi ad esso significherebbe accontentarsi di un’analisi parziale che non ne farebbe comprendere l’esatta portata.
   Un’altra dimensione da considerare nel valutare il fenomeno delle numerose azioni legali contro gli esercenti le professioni sanitarie è la non adeguata preparazione professionale di quest’ultimi, spesso figli di un  sistema malato, proprio della “Prima Repubblica”; un sistema clientelare nel quale molto spesso i posti di lavoro presso le strutture ospedaliere pubbliche venivano assegnati a coloro che potevano vantare un’amicizia con il politico in grado di esercitare la propria influenza sulle USL.
   Ciò premesso, ci si chiede se la nuova normativa, contenuta nel c.d. decreto Balduzzi, sia adeguata ad arginare il fenomeno sin qui esaminato.
   Chi scrive ritiene che la risposta debba essere negativa. Invero, l’articolo 3 del decreto Balduzzi (decreto legge n. 158 del 2012, convertito nella legge n. 189 del 2012), stabilisce che “ l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”. A seguito di questo nuovo assetto normativo, le SU della Cassazione si sono pronunciate in due occasioni: prima nella sentenza Pagano[1] e poi nella sentenza Cantore[2]. Da queste due decisioni emerge che l’esercente la professione sanitaria dovrà tenere conto delle peculiarità del caso specifico sottoposto alla sua cognizione per stabilire quando sia necessario distaccarsene al fine di tutelare in maniera più adeguata la salute del paziente.
   Appare chiaro quanto neppure l’intervento della Suprema Corte sia stato idoneo a risolvere, o quanto meno ad attenuare, il problema che riguarda, da un lato, l’intera classe medica, prigioniera di azioni legali spesso prive di ogni fondamento; dall’altro, i cittadini, soprattutto i meno abbienti, vittime di casi di malasanità, derivanti non soltanto dalla fatiscenza delle strutture pubbliche ma anche dalle scarse competenze dei medici che in esse operano.
   A parere di chi scrive, ancora una volta il legislatore italiano non è stato in grado di dettare una disciplina normativa dettagliata e adeguata alla delicatezza dell’argomento. In ossequio al principio di tassatività penale, si sarebbe dovuto stabilire, quanto meno con decreto ministeriale, quali siano le linee guida che i medici sono tenuti a seguire e quando i medesimi possono discostarsene rimanendo esenti da responsabilità penale.
   Fino a quando non ci sarà un adeguamento normativo, diretto a stabilire con maggiore chiarezza quali siano le condotte consentite dalla legge e quali, invece, quelle penalmente sanzionabili, l’argomento relativo alla salute dei cittadini sarà dominato sempre dallo stesso quesito: gli avvocati sono sciacalli o i medici sono ignoranti?   



[1] Cassazione penale, sez.IV, 24 gennaio-11 marzo 2103, n.11493.
2 Cassazione penale, sez.IV, sentenza 29 gennaio-9 aprile 2013, n.16237.


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