Gli
avvocati sono sciacalli o i medici sono ignoranti?
Con il proliferare delle cause per
responsabilità medica questo interrogativo è divenuto molto frequente. La
classe forense non sta attraversando un facile periodo e, pertanto, determinati
casi di malasanità vengono considerati dal punto di vista professionale come
una vera e propria manna dal cielo; si arriva a persuadere il cliente,
destinatario di prestazioni sanitarie non brillanti, ad adire le vie legali con
ogni mezzo, compresa la pressione psicologica.
Tuttavia, occorre sottolineare che quello
fin qui esposto rappresenta soltanto un aspetto della problematica. Si tratta
di un aspetto importante, ma limitarsi ad esso significherebbe accontentarsi di
un’analisi parziale che non ne farebbe comprendere l’esatta portata.
Un’altra dimensione da considerare nel
valutare il fenomeno delle numerose azioni legali contro gli esercenti le
professioni sanitarie è la non adeguata preparazione professionale di
quest’ultimi, spesso figli di un sistema
malato, proprio della “Prima Repubblica”; un sistema clientelare nel quale
molto spesso i posti di lavoro presso le strutture ospedaliere pubbliche
venivano assegnati a coloro che potevano vantare un’amicizia con il politico in
grado di esercitare la propria influenza sulle USL.
Ciò
premesso, ci si chiede se la nuova normativa, contenuta nel c.d. decreto
Balduzzi, sia adeguata ad arginare il fenomeno sin qui esaminato.
Chi scrive ritiene che la risposta debba
essere negativa. Invero, l’articolo 3 del decreto Balduzzi (decreto legge n.
158 del 2012, convertito nella legge n. 189 del 2012), stabilisce che “ l’esercente la professione sanitaria che
nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per
colpa lieve”. A seguito di questo nuovo assetto normativo, le SU della
Cassazione si sono pronunciate in due occasioni: prima nella sentenza Pagano[1]
e poi nella sentenza Cantore[2].
Da queste due decisioni emerge che l’esercente la professione sanitaria dovrà
tenere conto delle peculiarità del caso specifico sottoposto alla sua
cognizione per stabilire quando sia necessario distaccarsene al fine di
tutelare in maniera più adeguata la salute del paziente.
Appare chiaro quanto neppure l’intervento della
Suprema Corte sia stato idoneo a risolvere, o quanto meno ad attenuare, il
problema che riguarda, da un lato, l’intera classe medica, prigioniera di
azioni legali spesso prive di ogni fondamento; dall’altro, i cittadini,
soprattutto i meno abbienti, vittime di casi di malasanità, derivanti non
soltanto dalla fatiscenza delle strutture pubbliche ma anche dalle scarse
competenze dei medici che in esse operano.
A parere di chi scrive, ancora una volta il
legislatore italiano non è stato in grado di dettare una disciplina normativa
dettagliata e adeguata alla delicatezza dell’argomento. In ossequio al
principio di tassatività penale, si sarebbe dovuto stabilire, quanto meno con
decreto ministeriale, quali siano le linee guida che i medici sono tenuti a
seguire e quando i medesimi possono discostarsene rimanendo esenti da
responsabilità penale.
Fino a quando non ci sarà un adeguamento
normativo, diretto a stabilire con maggiore chiarezza quali siano le condotte
consentite dalla legge e quali, invece, quelle penalmente sanzionabili,
l’argomento relativo alla salute dei cittadini sarà dominato sempre dallo
stesso quesito: gli avvocati sono sciacalli o i medici sono ignoranti?
[1] Cassazione penale, sez.IV, 24 gennaio-11 marzo 2103, n.11493.
2 Cassazione penale, sez.IV,
sentenza 29 gennaio-9 aprile 2013, n.16237.
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